Si era da poco conclusa la guerra iniziata nel 1792 dalla Francia rivoluzionaria contro la maggior parte delle potenze europee (Sacro Romano Impero Germanico, Austria, Prussia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Regno di Sardegna e Regno di Napoli), quando, nel 1798, il governo francese decise di proseguire il conflitto con l’Inghilterra e organizzò una grande offensiva alla presa dell’Egitto(allora parte dell’Impero Ottomano), la cui conquista avrebbe aperto alla Francia una via verso le rotte commerciali orientali, controllate dagli inglesi.
Della spedizione, comandata dal generale Napoleone Bonaparte, facevano parte anche 170 eruditi (matematici, ingegneri, scienziati, artisti e naturalisti), inviati in Egitto per raccogliere dati sulla geografia, la storia naturale, i costumi e il passato dell’Egitto, con l’obiettivo di facilitare la conquista del paese e favorirne successivamente la prosperità; ma la scoperta che portò alla nascita dell’egittologia moderna avvenne per caso. Durante la ristrutturazione di un’antica fortezza egiziana nella città portuale di Al-Rashid, il 19 luglio 1799 alcuni soldati rinvennero un blocco di granito alto poco più di un metro e largo circa 70 centimetri, che su un lato presentava un’iscrizione incisa con tre tipi diversi di scritture.
Il reperto fu trasportato al Cairo presso l’Institut d’Égypte, fondato dagli stessi studiosi, che cominciarono subito ad analizzarlo. Il testo era formato da 14 righe scritte in geroglifico, 32 in demotico e 54 in greco, lingua parlata e scritta in Egitto fin dall’epoca ellenistica. Impossibilitati dal decifrare le due scritture egiziane, gli studiosi si dedicarono alla traduzione dell’iscrizione in greco, la quale rivelò un fatto non particolarmente rilevante dal punto di vista storico: si trattava di un decreto promulgato a Menfi nel 196 a.C. per celebrare il primo anniversario dell’ascesa al trono del faraone Tolomeo V Epifane. Ma la vera notizia arrivò dalla parte finale dell’iscrizione: i sacerdoti avevano ordinato che fossero realizzate più copie in pietra del testo per i templi più importanti e che fosse inciso sia in lingua egiziana, con la scrittura sacra (i geroglifici) e con il demotico (la scrittura del popolo)) sia in greco. La scoperta quindi fornì agli studiosi ciò di cui avevano bisogno per poter finalmente decifrare le due scritture egiziane fino a quel momento ancora incomprensibili.
Con la chiusura di tutti i templi pagani, imposta dall’imperatore Teodosio nel 391, la scrittura geroglifica finì difatti per essere emarginata e non più compresa, la stessa civiltà egizia cadde nell’oblio e, poco a poco si diffuse la convinzione che i geroglifici fossero soltanto dei simboli esoterici.
Alla fine del V secolo, Horus Apollo (conosciuto anche come Horapollo il giovane), uno dei professori di filosofia più in vista d Alessandria, cercò di riportare in auge l’antica saggezza egiziana ed esaminò la scrittura geroglifica, dandone un’interpretazione allegorica.
Anche il padre gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) fu attratto dal fascino misterioso dei geroglifici, ai quali dedicò gran parte dei suoi studi. Secondo lo studioso i geroglifici erano caratteri simbolici che racchiudevano tutte le conoscenze dei sacerdoti egizi, e seguendo questa teoria, fornì delle traduzioni a dir poco fantasiose! La comune espressione
Che significa “Re dell’Alto e Basso Egitto, signore delle Due Terre”, venne da lui tradotta con “Il genio polimorfo della Natura, l’uso delle cose soggette al Meriggio, primamente necessario alle regioni inferiori dei tre mondi, per forza e influsso del Nume Triforme” (da S. Curto, L’Egitto Antico, Torino 1974, pag. 254).
Queste bizzarre traduzioni portarono grande fama a Kircher, ma poco dopo la sua morte, egli stesso e i suoi vaneggiamenti furono presto dimenticati. Nel corso del Settecento gli studi sui geroglifici continuarono su un terreno più solido, fino a quando, il ritrovamento della Stele di Rosetta, spianò la strada a tutti coloro che cercarono di interpretare la misteriosa scrittura.
Lo scienziato inglese Thomas Young, fu anche uno studioso di lingue antiche e uno tra i primi a cercare di decifrare i geroglifici egizi. Nel 1814, Young ebbe l’occasione di vedere una copia della stele, ne tradusse la parte scritta in demotico, e capì che quest’ultimo e il geroglifico erano due sistemi di scrittura intimamente correlati. Successivamente, nel 1816, analizzando un papiro appartenente al libro dei morti, scritto in ieratico e in geroglifico, stabilì l’equivalenza tra la forma corsiva e quella pittorica dei segni, e dimostrò anche che i cartigli racchiudevano i nomi di re e regine.
Era ancora diffusa la convinzione che il geroglifico fosse una scrittura per lo più ideografica, e chi tentava di interrogarsi sul significato di quei segni si scontrava con un problema apparentemente senza soluzione: troppi caratteri per pensare a un alfabeto, troppo pochi perché ognuno rappresentasse un concetto. Ovviamente la spiegazione stava nel mezzo come dimostrò Jean François Champollion.
Il giovane e brillante studioso, si appassionò fin da bambino alla cultura egizia; studiò a Grenoble il Copto, la storia antica e tutti gli alfabeti e i sistemi di scrittura antichi che di lì a poco lo avrebbero aiutato nella decifrazione della scrittura geroglifica.
Champollion capì che la scrittura geroglifica non era solo figurativa né solo fonetica, ma un sistema misto di segni a valore ideografico e di segni corrispondenti a suoni
La decifrazione dei geroglifici egiziani da parte di Jean-François Champollion, nel 1822, dette nuovamente voce a questa scrittura ormai dimenticata e un nuovo impulso agli studi egittologici.
Bibliografia:
Sir Gardiner A., Egyptian Grammar, Griffith Institute, Oxford
Storica, numero 2, aprile 2009, National Geographic Society