Agli inizi del III secolo a.C. l’espansione di Roma e le nuove conquiste permisero anche uno sviluppo economico e il rafforzamento militare. Allo stesso tempo il coinvolgimento crescente nella politica italica, soprattutto nell’Italia meridionale portò a maggiori contatti con il mondo greco, determinando l’ellenizzazione sia in ambito artistico che religioso, ma anche lo scontro con gli interessi dei Cartaginesi che predominavano nel Mediterraneo occidentale.
Dal punto di vista economico, il grande avvenimento dell’inizio del III secolo fu la comparsa della monetazione romana, che attesta lo sviluppo economico di Roma, anche se l’economia dominante è ancora quella agropastorale e, come in tutte le società antiche, prevalgono un’economia rurale volta alla sussistenza e la media e piccola proprietà contadina.
La società, in particolare l’alta società romana, conobbe trasformazioni importanti, sia con la formazione della nuova nobiltà, sia con l’ingresso nella classe dirigente di nuovi personaggi sabini, umbri, campani ed etruschi.
L’esercito era ancora un esercito censitario, nazionale e non permanente, ovvero le legioni erano arruolate solo per il periodo delle campagne militari, durante il periodo della bella stagione da marzo a ottobre.
Roma e l’Italia centrale
Nel 290, il console Manio Curio Dentato devastò e annesse la Sabina. Le città sabine vennero amministrate da prefetti con conseguente colonizzazione delle terre confiscate.
Poco dopo i Galli Senoni, che avevano attaccato Arezzo, vennero fermati presso Volsinii, e respinti fino al mare, perdendo gran parte del loro territorio. Tra il 283 e il 268 Roma dedusse due colonie, una a Sena Gallica e l’altra a Rimini con l’annessione di una parte importante dell’ager gallicus tra Ancona e Rimini.
La distruzione di Volsinii nel 265, segnò la fine della grande Etruria e le città vennero ridotte a città federate, legate a Roma da un trattato.
A questo punto il territorio romano è passato da 5.000 a 13.000 kmq.
Nel primo quarto del III secolo, Roma si trovò impegnata anche in Italia meridionale, a causa della rivalità tra le colonie greche e delle loro difficoltà con le popolazioni indigene.
Un caso particolare era rappresentato da Turi rivale di Taranto, che, nel 284 per resistere ai Lucani, si appellò a Roma, la quale inviò un console per stabilirvi una guarnigione. Crotone, Locri e Reggio si unirono a Roma, ma continuarono gli scontri tra le fazioni locali degli aristocratici filoromani e dei democratici antiromani.
Nel 282, Taranto inviò un esercito a Turi per scacciare i Romani, ma Roma rispose mandando un esercito a devastare tutto il territorio tarantino. Fu a questo punto che Taranto chiese aiuto a Pirro.
Il giovane sovrano dell’Epiro nel 296 ottenne un regno montagnoso e povero tra l’Illiria, la Macedonia, la Tessaglia e l’Etolia. Dopo aver modernizzato l’economia e l’esercito, Pirro conquistò la Macedonia e la Tessaglia e ora aspirava a conquistare tutta la Grecia. Quando fu cacciato dalla Macedonia rispose all’appello di Taranto perché sperava così di riuscire a unificare le città greche della Magna Grecia, di farle riappacificare con i popoli indigeni e di costruire un regno potente e riuscire così a riconquistare la Macedonia.
La guerra contro Pirro
Nella primavera del 280 Pirro sbarcò a Taranto con 25.000 uomini e degli elefanti.
Il primo scontro con i Romani fu sotto le mura di Eraclea dove Pirro sconfisse l’esercito romano e riuscì ad arrivare fino a Capua.
La seconda vittoria di Pirro (vicino Ascoli) fu seguita da negoziati tra Roma e Pirro e tra Roma e Cartagine, per assicurare la protezione della Sicilia.
Pirro dopo essere sbarcato in Sicilia ed essere stato proclamato re a Siracusa e signore di Agrigento, penetrò nella parte della Sicilia controllata da Cartagine.
Nel 277 a.C. prese avvio il conflitto con i Cartaginesi: inizialmente furono conquistate facilmente Akragas, Eraclea Minoa, Selinunte, Halikyai e Segesta. Maggiore resistenza fu incontrata a Panormos e a Erice, la più munita fortezza filo-cartaginese sull’isola, e questo rese quasi naturale la defezione delle altre città controllate dai Punici. Lilybaion, invece, risultò inespugnabile: un assedio di due mesi risultò vano. I Cartaginesi avanzarono proposte di pace (tradendo l’accordo con i Romani), offrendo a Pirro la propria flotta per portarlo in Italia e qui attaccare Roma, ma questi rifiutò. Pare che a questo punto Pirro concepisse un piano analogo a quello che aveva condotto Agatocle a portare la guerra in Africa; per questa ragione cercò di finanziare la costruzione di una flotta, imponendo la spesa alle poleis della Sicilia. Pirro cercò di reagire imponendo una vera e propria dittatura su tutte le città greche, che fece presidiare con forti guarnigioni ma con tali misure si alienò tutti i consensi. I Cartaginesi, nel frattempo, tentarono di trarne giovamento inviando una seconda armata in Sicilia ma furono prontamente sconfitti.
Pirro, informato dai Tarantini che Roma era riuscita a occupare gran parte della Magna Grecia e conscio della sua impopolarità tra i Sicelioti, decise poco dopo di abbandonare la Sicilia e di tornare in Italia.
Durante il trasferimento, i Cartaginesi ne approfittarono per attaccarlo sul mare e l’esercito di Pirro subì gravissime perdite nella Battaglia dello Stretto di Messina.
Mentre Pirro trasportava le sue truppe a Rhegium, la sua flotta di 110 navi da guerra più centinaia di navi per il trasporto truppe fu attaccata dai cartaginesi. La marina cartaginese affondò 70 navi greche e ne danneggiò 28. Le navi superstiti di Pirro, pari a 12 navi da guerra più le navi da trasporto, attraccarono a Locri, dove aveva lasciato il figlio Alessandro all’avvio della sua campagna di Sicilia.
La fine della guerra (275 a.C.)
Nel 275 a.C. mossero a battaglia contro un esercito epirota stanco e provato da anni di lotte lontano dalla patria, presso Maleventum.
L’esercito romano era comandato dal console Manio Curio Dentato, che si era accampato su un’altura e contava su una forza di circa 17 000 uomini. Pirro disponeva invece di quasi 20 000 soldati, oltre ad alcuni elefanti da guerra. Nello schieramento del suo esercito erano presenti reparti di cavalleria macedone, greca e sannitica, mentre la fanteria era organizzata secondo il modello della falange macedone e comprendeva anche opliti greci, oltre a frombolieri, lanciatori di giavellotto e arcieri.
Pirro aveva diviso i suoi uomini in due armate: una era rimasta a fronteggiare un console in Lucania, con l’altra si era diretto nel Sannio, dove gli si erano aggregati pochi rinforzi. Poteva così disporre di forse 20 000 fanti, 3 000 cavalieri e una ventina di elefanti. Probabilmente fu in questa occasione che Pirro adottò lo schieramento alternato di speirai greche e coorti italiche citato da Polibio, per evitare lo sfondamento delle proprie linee avvenuto ad Ascoli di Puglia proprio là dove erano concentrati i suoi alleati italici.
I Romani avevano ormai imparato a conoscere gli elefanti da guerra, che nello scontro di Eraclea erano stati una delle principali cause della sconfitta, ed ebbero la meglio sulle truppe epirote e tarantine, grazie anche alla tattica attuata dagli arcieri, i quali, scagliando frecce infuocate, riuscirono a far imbizzarrire gli elefanti che crearono lo scompiglio tra le truppe di Pirro. Continui attacchi indebolirono e sfiancarono la cavalleria, mentre la fanteria riuscì a sopraffare la falange con fitti lanci ravvicinati di giavellotti, che aprivano dei varchi entro i quali i legionari, con il corto gladio, riuscivano a colpire il nemico armato di lance, assolutamente inutili nel corpo a corpo. Così aggredita, la falange venne definitivamente annientata dagli attacchi laterali della seconda e terza linea delle legioni.
La tradizione romana parla di 23 000 nemici uccisi e di 1 300 prigionieri, ma tace sulle proprie perdite. Furono abbattuti anche due elefanti da guerra, mentre altri otto furono catturati, dei quali quattro furono portati vivi a Roma, dove suscitarono grande curiosità tra il popolo che non ne aveva mai visti.
In seguito a questa battaglia Pirro decise di ritornare in patria, dal momento che non aveva ricevuto alcun rinforzo dalla Grecia e dagli altri sovrani ellenistici cui era stata fatta richiesta, lasciando una sola guarnigione a Taranto.
Due anni dopo preparò un’altra spedizione bellica contro Antigono II Gonata; Pirro lo sconfisse facilmente e tornò a sedersi sul trono macedone.
Nel 272 a.C., Cleonimo, un nobile spartano che si era inimicato le autorità della sua città, chiese a Pirro di attaccare Sparta, conquistarla e comandarla nel nome dell’Epiro.
Pirro, bramoso di ottenere il controllo del Peloponneso, accettò ma il suo esercito trovò un’inaspettata resistenza, tale da impedirgli ogni assalto su Sparta. Il re, allora, decise di passare l’inverno nel Peloponneso per poi riprendere la campagna di conquista in primavera.
Nel frattempo, intervenne in una disputa interna alla città di Argo.
Entrato di soppiatto con l’esercito in città, Pirro si ritrovò coinvolto in una confusa battaglia strada per strada.
Pirro fu un abilissimo stratega e uno dei più brillanti capi militari del suo tempo. Secondo Annibale, solo Alessandro Magno lo superava, ma la fortuna non era dalla sua parte… Una donna anziana, vedendolo dal tetto della sua casa, gli lanciò una tegola che, secondo quanto si dice, lo colpì e lo distrasse, permettendo a un soldato argivo di ucciderlo.
La morte di Pirro permise a Roma di fare nuove conquiste.
La presa di Taranto (273 – 272)
Con la presa di Taranto Roma completò la conquista dell’Italia meridionale: la Lucania si era già sottomessa e una colonia era stata dedotta a Paestum nel 273, ma era Taranto che attraeva maggiormente sia i Romani (che vi inviarono un esercito) che i Cartaginesi (che vi inviarono una flotta), grazie alle ricchezze della città e alla sua posizione strategica.
Nel 272, Milone, il comandante della cittadella epirota, consegnò la stessa ai Romani a patto di avere via libera: Taranto ricevette lo statuto di città libera, ma una guarnigione romana vi rimase acquartierata. Di fatto Roma aveva già sottomesso l’unica città in grado di contrastarla nell’Italia meridionale. A ciò fece seguito la sottomissione di tutta l’Italia del sud, sia greca che indigena e il termine Italia venne esteso a indicare l’intera penisola.