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L’iscrizione di Bisotun

L’iscrizione di Bisotun
Nicoletta Pagliai

L’iscrizione di Bisotun, la più grande al mondo, è cosiddetta perché incisa sul monte Bisotun (in antico persiano, “luogo dove dimorano gli dèi”).

Questo monte si trova a circa 30 km dalla città iraniana di Harsin e fa parte della catena montuosa Zagros, formatasi durante il Miocene a seguito della collisione tra l’Eurasia e la zolla arabica,  che separa l’altopiano dalla depressione mesopotamica.

Il documento è un lungo testo di storia persiana ed è l’unica iscrizione reale che registra fatti, date e luoghi. È incisa su una lastra liscia di roccia di forma rettangolare a circa 66 m di altezza, lungo l’antica via carovaniera e strada strategica che collegava Ecbatana a Babilonia e a livello del suolo non era leggibile.

In questa iscrizione Dario ricorda le sue vittorie militari. Egli narra che il dio Ahura Mazda lo scelse per cacciare dal trono l’usurpatore  Gaumata e così salvare la Persia, come si fosse dedicato a soffocare molte rivolte e come avesse dovuto difendersi dai nemici esterni.

Il monumento consiste in quattro parti. Il primo pannello ritrae Dario a grandezza naturale in abiti regali e armato di arco, insieme a Intafrene (il suo portatore di arco) e Gobria (il suo portatore di lance).

Dario domina dall’alto su nove personaggi rappresentanti di popoli sottomessi, con i colli legati insieme con una lunga corda e le mani strette dietro la schiena. Sotto i piedi di Dario si trova un’altra figura molto danneggiata con il nome di Gaumata.

Sopra tutte queste persone (13 in tutto) c’è la rappresentazione del dio supremo Ahura Mazda, la principale divinità della religione zoroastriana.

Sotto invece si trova un pannello con un testo cuneiforme che in realtà veicola l’antico persiano, la lingua con cui si esprimevano il potere e la cancelleria dell’impero achemenide e della sua capitale Persepoli. Inventato, secondo la tradizione, nel V secolo a.C. da Dario I, l’antico persiano rappresentava in realtà solo una delle lingue in cui si esprimeva la propaganda regale degli achemenidi: le altre due erano il babilonese, con centro principale Babilonia, e l’elamita, incentrato sull’area di Susa.

Ogni iscrizione reale dei sovrani achemenidi ripeteva lo stesso testo in tutte e tre le lingue del loro immenso impero, sempre rispettando l’ordine seguente: persiano antico, elamita e babilonese. Il testo in antico persiano è lungo circa 515 righe.

Altri pannelli narrano più o meno la stessa storia in accadico/babilonese e in elamita. Il testo in elamita è lungo 650 righe.



Queste iscrizioni rappresentano per la scrittura cuneiforme quello che la stele di Rosetta è per i geroglifici egiziani: il documento cruciale per decifrare un sistema di scrittura che si credeva perduto.

Fu proprio il persiano antico a essere decifrato per primo, grazie al numero ristretto di segni (42) e alla sua parentela con il ceppo linguistico indoeuropeo. Questo permise a sua volta la decifrazione del babilonese, lingua del ceppo semitico, nella cui grafia si potevano riconoscere alcune centinaia di segni; l’elamita invece, scritto con circa 110 segni, è ancora oggi una lingua non perfettamente nota. Ma sulla decifrazione torneremo più avanti.

Sopra il testo in persiano antico, l’altorilievo raffigura il re e la divinità, l’usurpatore ucciso e sette personaggi che rappresentano i sette ribelli.

Dopo aver detronizzato Gaumata (522 a. C.), Dario dovette soffocare parecchie ribellioni in tutto l’impero e combattere ben diciannove battaglie con un gruppo di soldati a lui legati da un vincolo di lealtà. I soldati ribelli furono sconfitti e i comandanti, come consuetudine, mutilati e impalati.

Mentre veniva creato questo monumento, tra il 520 e il 519 a.C., Dario sconfiggeva gli Elamiti e gli Sciti, quindi il progetto iniziale fu modificato per inserire la celebrazione di queste vittorie. Furono aggiunte due nuove figure, una delle quali era il re scita (saka) Shunkha, rappresentato con una lunga barba e un cappello a punta. La raffigurazione del capo degli Sciti, Skunkha, venne posta accanto a quella degli altri capi sconfitti, però, così facendo, si dovette eliminare la parte più a sinistra delle iscrizioni in elamitico, che vennero minuziosamente ricopiate più in basso, a sinistra di quelle in persiano antico.

Terminati i lavori, venne rimossa la cornice di roccia sottostante affinché nessuno potesse più toccare le iscrizioni.

Oltre a costituire una primaria fonte di fondamentale importanza per la storia della Persia, l’iscrizione di Bisotun è anche un’abile esempio di propaganda politica, che contribuì molto alla legittimazione del regno di Dario.

La decifrazione

La prima citazione storica delle iscrizioni fu fatta dal greco Ctesia di Cnido che ne annotò l’esistenza attorno al 400 a.C., parlando di un pozzo e di un bel giardino sotto le iscrizioni dedicate dalla regina Semiramide a Zeus (analogo greco di Ahura Mazdā).

Anche Tacito ne parlò inserendo una descrizione di monumenti ausiliari alla base del monte che sarebbero andati perduti, tra cui un altare dedicato ad Ercole. I reperti recuperati sul luogo, tra cui una statua del 148 a.C., sono coerenti con quanto descritto da Tacito. Infine ne abbiamo notizie in Diodoro Siculo, storico del I secolo a.C.

Dopo la caduta dell’impero persiano e dei suoi successori, e il declino della scrittura cuneiforme, la natura delle iscrizioni venne dimenticata e la storia delle sue origini cominciò a riempirsi di particolari inventati. Per secoli, invece di attribuirle a Dario, si credette che risalissero al regno di Cosroe II, uno degli ultimi re di Persia.

Nel Medioevo e nell’età moderna furono create leggende e interpretazioni fantasiose riguardo queste iscrizioni e fu solo nel 1764 che Carsten Niebuhr, durante l’esplorazione dell’Arabia e del Medio Oriente per conto di Federico V di Danimarca, fece una copia delle iscrizioni nel suo diario di viaggio. Le trascrizioni di Niebuhr vennero usate da Georg Friedrich Grotefend e da altri nel tentativo di decifrare la scrittura cuneiforme dell’antica Persia. Grotefend decifrò 10 dei 37 simboli nel 1802.

Nel 1835 Henry Rawlinson, ufficiale della Compagnia Inglese delle Indie Orientali assegnato allo Scià dell’Iran, iniziò a dedicarsi seriamente al loro studio. Nonostante la loro inaccessibilità Rawlinson riuscì a scalare il monte copiando l’iscrizione in antico persiano. Il testo in elamitico si trovava oltre un crepaccio, e il babilonese quattro metri sopra; entrambi erano difficili da raggiungere, e vennero rimandati a futuri studi.

Con circa un terzo del sillabario reso disponibile dal lavoro di Georg Friedrich Grotefend, Rawlinson iniziò a lavorare al testo persiano. Fortunatamente la prima sezione conteneva una lista degli stessi re persiani ritrovabili negli scritti di Erodoto nella loro originale forma persiana. Ad esempio il nome di Dario viene scritto come “Dâryavuš” invece della versione greca “Δαρειος“. Esaminando i nomi e i caratteri, Rawlinson riuscì a decifrare la scrittura degli antichi persiani e nel 1838 presentò i risultati dei propri studi alla Royal Asiatic Society di Londra e alla Société Asiatique a Parigi.

Nel frattempo Rawlinson fece una spedizione in Afghanistan che terminò nel 1843. Attraversò per la prima volta il crepaccio che lo divideva dalle altre due scritture costruendo un ponte temporaneo con assi di legno e assunse un ragazzo del posto  che si arrampicasse fino in cima alla costa per appendere funi grazie alle quali riuscì a fare vari stampi di cartapesta del testo babilonese.

Rawlinson, insieme ad alcuni studenti, decifrò le iscrizioni, arrivando a leggere per intero. La capacità di leggere l’antico persiano, l’elamitico e il babilonese fu uno degli sviluppi chiave che condussero l’assiriologia a un livello moderno.

In seguito vennero effettuate altre spedizioni. Nel 1904 ce ne fu una sponsorizzata dal British Museum e guidata da Leonard William King e Reginald Campbell Thompson, mentre nel 1948 ne compì un’altra George G. Cameron dalla University of Michigan. Entrambe raccolsero fotografie, gessi e trascrizioni più accurate dei testi, compresi i passaggi non copiati da Rawlinson.

Purtroppo le piogge avevano eroso parte del calcare in cui il testo era stato inciso, lasciando invece intatti altri strati di calcare che avevano parzialmente coperto l’opera.

Durante la seconda guerra mondiale il monumento fu ulteriormente danneggiato dai soldati che lo usarono come bersaglio per l’addestramento.

Recentemente gli archeologi iraniani hanno svolto alcuni lavori di restauro e nel 2006 il sito divenne patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.

Bibliografia:

D’Agostino, I sumeri, Hoepli

Fields N., Termopili, la resistenza dei 300, Osprey publishing

Wiesehöfer, La Persia antica, Il Mulino

Liverani M., Antico Oriente, Manuali Laterza

https://archive.org/details/DariusAndHisBehistunInscription/mode/2up

https://www.ledonline.it/acme/allegati/Acme-05-II-03-Aspesi.pdf

https://archive.org/details/Rossi.A.LIscrizioneOriginariaDiBisotunDBElam/page/n5/mode/2up

https://archive.org/details/osthistoryfrye1983thehistoryofancientiran/page/n395/mode/2up (trascrizione in inglese dell’iscrizione,  p. 363-368)

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