All’interno dell’idea di medioevo troviamo una gran quantità di luoghi comuni anche a proposito dei monaci e del loro rapporto con il popolo. L’ampiezza della documentazione di origine monastica, l’influenza secolare della tradizione storiografica benedettina e la censura da parte della Chiesa, hanno portato all’inevitabile sopravvalutazione dell’impatto del monachesimo sulla società, tesi che purtroppo continua a circolare nei testi scolastici ancora oggi.
Durante tutto l’alto medioevo, i monaci costituivano lo 0,5% della popolazione ed erano responsabili dei 4/5 dell’informazione scritta contemporanea e di un’ampia percentuale di testi narrativi, parte della memoria collettiva. A partire dal X secolo questa percentuale, inizialmente così favorevole ai monaci, per fortuna comincia a diminuire drasticamente, permettendo agli storici di ricostruire un’immagine più rappresentativa della società. I monaci e i chierici non erano più gli unici a padroneggiare la scrittura: nei Paesi Bassi, ad esempio, in soli due secoli (dal X al XII) la percentuale di fonti monastiche passa da 90 a 55, scende a 20 nel XIV secolo, per poi toccare la quota minima di 10 nel XV secolo. Possiamo quindi facilmente comprendere quanto l’influenza monastica sia stata e sia ancora sopravvalutata nella ricostruzione della storia medievale.
Prima di fare ogni altra considerazione riguardo al rapporto dei monaci con il popolo è doveroso fare qualche precisazione su ciò che si intende con i termini “popolo”, “monastero” e “monaco”.
Il popolo era la “gente comune”, ovvero il 90 – 95% della popolazione, e rappresentava contemporaneamente la maggioranza dal punto di vista demografico, e la minoranza dal punto di vista sociale e giuridico.
Per quanto riguarda i monasteri, è bene precisare che nel medioevo essi non erano enti ecclesiastici, e soprattutto nei primi secoli, i monaci non ricevevano l’ordinamento sacerdotale e non potevano officiare, salvo casi rarissimi. I monaci, quindi, erano dei laici che conducevano una vita di preghiera lontano dal mondo, all’interno di una comunità e obbedendo alla regola monastica, e solo a partire dal XII secolo prenderanno abitualmente gli ordini sacri.
È impensabile pretendere di avere una visione compatta dei mille anni di storia che formano il medioevo, soprattutto quando parliamo di argomenti ecclesiastici e religiosi. In questa trattazione ci occuperemo, quindi, solo dei monasteri benedettini, i più diffusi almeno fino al XII secolo, quando, dopo aver raggiunto il massimo del prestigio e del coinvolgimento politico, cominciarono a subire molte critiche per la loro potenza signorile, il loro atteggiamento aristocratico e per l’assenza di una cultura della povertà fra le loro mura. La società chiedeva un maggior impegno assistenziale e l’astensione dal potere e dalla ricchezza, e in questo clima il monachesimo benedettino venne reinterpretato dai certosini e dai cistercensi, che, pur continuando a essere legati alle famiglie più eminenti e a curare il benessere materiale, furono senza dubbio più votati alla solitudine e più vicini alla vita dei contadini. Ed è proprio tra il XII e il XIV secolo che si manifestò un maggior dinamismo dei laici non solo sul piano politico e culturale, ma anche su quello religioso e proliferarono le iniziative benefiche in tutta Europa, con la fondazioni di ospedali e confraternite.
I benedettini, in ogni caso, continuarono a svolgere un ruolo politico ed economico anche nel tardo medioevo, grazie ai loro legami con la nobiltà e alle loro grandi proprietà fondiarie.
Come già anticipato, la regola dominante nei monasteri era quella di san Benedetto secondo la quale tutti, senza alcuna distinzione, dovevano condurre una vita umile, e per questo ai monaci non era consentito possedere niente: tutto doveva essere condiviso con la comunità. Il rifiuto della proprietà privata però non implicava una mancanza di beni o uno stile di vita povero; il termine “povero”, all’interno dei monasteri e delle abbazie, non connotava una persona priva di beni, bensì una persona semplice dal punto vista spirituale, ininfluente o priva di potere; mentre la parola “ricco” significava nobile e implicava anche qualità morali e fisiche che si identificavano con il potere.
La povertà era considerata una virtù solo se era una scelta e non una condizione naturale, e ben presto anche la dote divenne una prassi generale; il mantenimento di una persona nell’arco di una vita, senza contropartita, fu avvertito come un peso insopportabile dalla comunità monastica, e venne introdotto un rigoroso sistema di discriminazione che prevedeva la separazione dei membri poveri per natura da quelli agiati, poveri per scelta: ai primi non era consentito diventare monaci ed erano chiamati conversi (o frati laici).
Tuttavia, i monasteri benedettini furono sempre luoghi di difficile accesso, i nobili erano coloro che formavano la parte più consistente dei monaci e alcune abbazie, riservate esclusivamente alla nobilt,à continuarono ad esistere per tutta l’età moderna.
Per limitare la dispersione delle ricchezze e il rischio di impoverimento, una percentuale significativa di giovani nobili (circa il 25 – 30%) era destinata al celibato ed era avviata alla vita monastica o alla carriera clericale. Questa strategia permetteva ai nobili di mantenere la loro egemonia sulla società e faceva sì che i monasteri fossero ricchi e potenti. Dall’archeologia risulta anche che per la nobiltà era una prassi consolidata destinare al monastero i figli handicappati, e il fatto che essa fosse ritenuta una procedura normale, nonostante le lamentele delle abbazie, conferma quanto l’influenza della nobiltà fosse preponderante.
Alla fine del IX secolo, non vi era più traccia dell’etica idealista degli imperatori carolingi, tesa alla creazione di una società giusta e alla protezione dei poveri contro gli abusi, e quelli che vivevano in povertà videro diminuire progressivamente i propri diritti, omologandosi sempre più alla popolazione servile. Tuttavia per i monaci, questo ordine sociale era una creazione di Dio, come tale doveva funzionare alla perfezione e nessuno doveva intervenire per cambiarlo. L’unico obiettivo dei monaci era la conquista del paradiso e se nessuno fosse stato povero, nessuno avrebbe potuto fare la carità e di conseguenza ottenere la remissione dei peccati.
Un altro luogo comune molto diffuso ancora oggi è quello che riguarda la cura degli infermi. I benedettini avevano le infermerie per i monaci vecchi e malati, ma non erano destinate anche ai malati esterni e, salvo rare eccezioni, i monaci non si occupavano della cura degli infermi. Gli imperatori carolingi avevano elaborato un piano di assistenza sociale, ma ai benedettini non era stato attribuito alcun ruolo.
Anche riguardo all’accoglienza dei pellegrini, occorre fare chiarezza. Lungo le vie di pellegrinaggio, soprattutto verso Santiago di Compostela, c’erano molti conventi che accoglievano i pellegrini ma c’erano altrettante limitazioni; ad esempio i mercanti non erano ospiti graditi dai monaci e il sistema di accoglienza funzionava solo per coloro che avevano scelto l’esilio e la fame per raggiungere la salvezza eterna. In ogni caso la partecipazione della gente comune ai pellegrinaggi era molto esigua: si aggirava intorno allo 0,01% negli anni ordinari e allo 0,05% negli anni santi e il popolo conosceva i grandi centri di pellegrinaggio grazie ai racconti fantasiosi dei pochi viaggiatori che vi si erano recati.
I monaci benedettini quindi si preoccupavano della società molto meno di quanto noi oggi siamo indotti a pensare, e non amavano neppure il lavoro manuale, cui non riconoscevano una funzione purificatrice; soprattutto i monaci provenienti da famiglie agiate avevano un atteggiamento altezzoso nei confronti del lavoro manuale che assimilavano a quello servile. In generale i monaci dedicavano poche ore al giorno al lavoro agricolo anche a causa del loro regime alimentare: la scarsa alimentazione e i periodici digiuni li rendevano poco idonei alla fatica dei campi, e il lavoro veniva svolto quasi esclusivamente dal conversi e dai mezzadri.
Secondo le fonti narrative dell’epoca e le opere di devozione successive, nel corso del medioevo sarebbero state distribuite enormi quantità di pane da parte dei monaci, ma ciò non corrisponde affatto alla realtà. Le abbazie promuovevano le attività caritatevoli, ma la maggior parte dei monasteri si attenevano ai precetti minimi previsti dalla Regola e si preoccupavano solo che ogni loro atto caritatevole si traducesse in un profitto spirituale.
Dagli Statuti dell’abbazia di Corbie, in Piccardia, una delle più importanti e popolate dell’età carolingia, emerge che i 200 monaci che vi risiedevano non erano poi così caritatevoli. I poveri, che ogni giorno si presentavano alle porte dell’abbazia, ricevevano cinquanta pani (un pane era metà della forma di pane corrente dell’epoca), a volte un po’ di birra, e solo in occasioni speciali, un po’ di formaggio e lardo. Alcune abazie riservavano all’aiuto esterno solo lo 0,5% delle rendite e secondo lo storico Robert Snape, il sostegno globale non superava in media il 2% delle rendite, dato probabilmente sovrastimato, in quanto include anche le offerte e i regali a favore di persone importanti. Se consideriamo poi che tali somme provenivano quasi sempre dalle donazioni dei nobili alle casse dei monasteri, possiamo affermare che i monaci fungevano più che altro da intermediari.
Per concludere, possiamo affermare che, nonostante i precetti biblici raccomandassero ai cristiani di occuparsi dei poveri e dei deboli, i monaci non fecero uno sforzo particolare per aiutare i più bisognosi, e nonostante disponessero di molti mezzi, il loro aiuto fu prevalentemente simbolico e molto limitato, e le percentuali di carità non furono superiori a quelle presenti in altri ambienti agiati del tempo.
Bibliografia:
Sergi, G., L’idea di medioevo
Milis, L., Monaci e popolo nell’Europa medievale
Duby, G., Il monachesimo e l’economia rurale, in Il monachesimo e la riforma ecclesiastica (1049-1122)
Moulin, L., La vita quotidiana dei monaci nel medioevo