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La monetazione romana (I parte)
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Sistema onomastico romano

La monetazione romana (II parte)

La monetazione romana (II parte)
Nicoletta Pagliai

Con Caracalla l’aureo venne svalutato di nuovo, portandolo ad 1/50 di libbra (6,54 g). Inoltre, sia per l’aureo che per il denario (ridotto ad avere meno del 50% di argento) vennero introdotte monete con valore raddoppiato: il doppio aureo (o binione) ed il doppio denario (o antoniniano), anche se per quest’ultimo non contenne mai più di 1,6 volte il contenuto d’argento del denario. Comunque, mentre l’aureo riuscì ad avere una valutazione abbastanza stabile, anche l’antoniniano conobbe la stessa progressiva svalutazione vista col denario, fino a ridursi a un contenuto d’argento del 2%.

L’antoniniano, completamente d’argento e più grande del denario, per differenziarlo da quest’ultimo presentava l’imperatore con una corona radiata (anziché d’alloro, come sul denario), indicando così il suo valore doppio (come nel dupondio, che valeva due assi). Anche se di valore doppio del denario, l’antoniniano non pesò mai più di 1,6 volte il peso del denario.

Il denario continuò a essere emesso accanto all’antoniniano, ma durante la metà del III secolo d.C. fu rapidamente svalutato per far fronte al permanente stato di guerra del periodo. Attorno al 250 conteneva ancora il 30-40% di argento, una decina d’anni più tardi ne conteneva solo il 5%, mentre il restante 95% era rame. Se inizialmente il rapporto con l’aureo era di 25:1 (un aureo = 25 antoniniani) o forse di 50:1, al tempo di Aureliano giunse addirittura a 800:1.

Tra il 272 ed il 275, Aureliano riformò nuovamente il sistema monetario romano, eliminando la possibilità di coniazione locale delle monete minori per riportarle a un livello qualitativo paragonabile a quello delle altre monete. L’aureo fu portato inizialmente a 1/60 di libbra (5,54 g), ma poi il suo valore fu fissato ad 1/50 di libbra (6,50 g). Per l’antoniniano si fissò un peso di 3,90 g e un titolo di 20 parti di rame e uno d’argento, rapporto indicato sulla moneta tramite il simbolo XXI in latino o KA in greco.

Eutropio narra che sotto il regno di Aureliano a Roma anche i lavoratori della zecca si ribellarono per le monete false e il responsabile della zecca di Roma fu ucciso.

Gli imperatori successivi alla dinastia dei Severi, il cui potere dipendeva interamente dall’esercito, erano costretti a continue nuove emissioni per pagare i soldati ed effettuare i tradizionali donativi. Il metallo effettivamente presente nelle monete si ridusse progressivamente, pur conservando queste lo stesso valore teorico. Ciò ebbe l’effetto prevedibile di causare un’inflazione galoppante e quando Diocleziano arrivò al potere il sistema monetario era quasi al collasso: persino lo stato pretendeva il pagamento delle tasse in natura invece che in moneta e il denario, la tradizionale moneta d’argento, usata per più di 300 anni, era poco apprezzata.

A seguito della riforma di Diocleziano, la monetazione romana cambiò radicalmente. Dato che il governo introdotto da Diocleziano si basava su una tetrarchia, con la suddivisione dell’impero in due territori assegnati a due diversi imperatori e con due Cesari a supporto ai due reggenti, le monete iniziarono a non personificare più un singolo reggente, ma a dare un’immagine idealizzata dell’imperatore sul dritto, con il rovescio che celebrava tipicamente la gloria di Roma e la sua potenza militare. Anche dopo l’adozione del cristianesimo come religione di Stato, quest’impostazione rimase abbastanza invariata: solo in poche eccezioni vennero utilizzate immagini cristiane come il chi-rho, monogramma di Cristo. Nel 300 venne emanato un editto (l’Editto sui prezzi massimi) che fissava appunto i prezzi massimi delle merci, con l’intento di calmierarli: i prezzi venivano espressi in denarii, anche se questa non era ormai più una moneta in circolazione.

L’aureo torna a un peso di 1/60 di libbra e si introduce una moneta in argento, detta argenteo, con un peso pari a 1/96 di libbra. Oltre ad un antoniniano con un peso di 3,90 g, fu introdotta anche una moneta in bronzo, il follis, con un peso di circa 10 g.

L’ultima riforma dell’impero romano fu quella di Costantino nel 309-310, che si rifaceva al sistema bimetallico di Augusto. La riforma monetaria fu necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d’oro. Venne, quindi, introdotto il solidus d’oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè più leggero (anche se più largo e sottile) dell’aureo, che in quel momento valeva 1/60 di libbra. Il ritorno al sistema bimetallico augusteo portò anche alla coniazione della siliqua d’argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centenionalis, cioè 1/100 di siliqua.

La riforma fu durevole e il nuovo peso aureo del solido rimase invariato per secoli anche durante l’impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d’oro, infatti, dovettero subire le conseguenze dell’inflazione, a causa di una svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d’argento e di rame, che non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri.

Questo sistema monetario durò fino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476.

Costantino I, solido, zecca di LugdunumTicinum, 315 d.C.

Solido di Costantino

Aureo di Augusto

Aureo di Augusto

Didracma

Vittoriato

Bibliografia:

https://manuali.lamoneta.it

F. Barello, Archeologia della moneta. Produzione e utilizzo nell’antichità, Carocci Università

A. Savio, monete romane, Jouvence

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